Sul pulmann Pagani-Napoli ho trascorso complessivamente migliaia di giorni, considerato che per circa 50 anni ho viaggiato tra Angri e Napoli, prima in treno, a volte in automobile, ma soprattutto in autobus.
Correva l’anno 1961 e il sindaco di Angri (in quegli anni c’era un continuo avvicendamento di primi cittadini), prof. Luigi Campanile, mio docente di matematica e caro amico di famiglia, mi telefona e col suo vocione mi dice: “Ellina, devi venire subito al Comune, perché assieme ad un dirigente della SOMETRA (la denominazione dell’attuale CSTP) dobbiamo fissare gli orari più conveniente per gli studenti che frequentano l’università di Napoli”. Nella stanza del sindaco che era di fronte a casa mia, tanto che avremmo potuto comunicare via balcone, c’era un sussiegoso signore dai capelli bianchi al quale spiegai che nelle università napoletane alcune lezioni (poche) iniziavano alle 8,00, altre alle 9.00 e quasi tutte terminavano alle 18,00. In quegli anni frequentavo i corsi di lingue presso l’Istituto universitario Orientale di Napoli e quelli in realtà erano i miei orari.
Ebbe inizio quindi il servizio Angri-Napoli: le corse erano solo quattro, partivano da Piazza Doria, la prima puntualissima alle 7.00 e l’ultima da Napoli, Piazza Garibaldi alle 18.00. I viaggio costava, se non ricordo male, 40 lire e il biglietto giallo, si acquistava dal bigliettaio che viaggiava sulla stessa vettura. Il capolinea era Angri, ma molti viaggiatori, provenienti da Pagani, ottennero che fosse spostato a Pagani e da allora la puntualità cominciò ad essere subordinata al traffico. Comunque fu un bel periodo con un splendido rapporto tra viaggiatori e personale: nell’autobus si chiacchierava, si commentavano il tempo, l’ultimo teleromanzo trasmesso dalla televisione, la politica locale e, il lunedì, i risultati calcistici. I ragazzi che dovevano sostenere qualche esame venivano incoraggiati all’andata e poi applauditi o consolati al ritorno. Ho visto crescere e maturare generazioni di studenti, timidi al primo impatto
col mondo universitario e con la città e poi sempre più baldanzosi fino alla laurea. Il personale era gentile, quasi paterno: spesso il conducente mi aspettava col motore acceso scrollando la testa quando, trafelata, coi capelli in disordine attraversavo la piazza “Si nun venite vuie, cà nun ce ne putimme ji”, diceva e il bigliettaio (ancora non esistevano quelle infernali macchinette chiamate obliteratrici) tollerava pazientemente la mia affannosa e vana ricerca dell’abbonamento che avevo lasciato in un libro a casa.
Maliziosamente si diceva che il Pagani-Napoli era il mio salotto, immagine in effetti molto veritiera. Molte belle amicizie le ho strette o le ho approfondite sull’autobus: Gianni Vitolo, allora studente di Lettere e appassionato di Gian Battista Vico, Giovanna Vaccaro, studentessa in medicina che tempestavo di domande sulla ricerca medica, Mimma Galizia con la quale ci immergevamo talmente nella conversazione da non notare i rallentamenti purtroppo lunghi e frequentissimi del percorso.
“Siamo già arrivate?” esclamavano meravigliate e gli altri viaggiatori, irritati e stanchi pensavano fossimo impazzite. Più tardi, già laureata, assistente volontaria e cioè docente precaria, sempre all’Orientale, conversavo durante il tragitto con studenti di Angri o di Pagani, alcuni dei quali venivano a Napoli al mio ricevimento. E’ capitato spesso che qualcuno all’arrivo è rimasto sulla vettura. “E vuie nu’ scennite?” chiedeva il conducente, e la studentessa: “Venivo a Napoli per chiedere consiglio alla professoressa sul mio piano di studi, lo abbiamo già concordato e ora me ne torno a casa a studiare” e lui scherzoso:” Prufessure’, ca c’avimmo mettere ‘a targa, che chist’è ‘o studio vuosto!”
Potrei raccontare tantissimi episodi lieti e tristi occorsi durante i viaggi molto spesso avventurosi: le prime vetture, senza aria condizionata, erano roventi d’estate e gelide d’inverno; a volte i finestrini non si aprivano, o peggio non si chiudevano lasciando entrare piaggia e vento; non essendovi ancora alcun divieto, il fumo era soffocante e, pur non essendo dipendenti dal tabacco,si tornava a casa con gli abiti e i capelli impregnati di fumo. Una volta degli operai in rivolta avevano interrotto l’autostrada, incendiando sull’asfalto alcuni copertoni d’auto. L’uscita non era lontana e quindi siamo scesi dall’autobus e, come nei film d’avventura, sollevando le gonne siamo saltati sulle fiamme per raggiungere il casello. Un’altra volta, a causa di un blocco su via Galileo Ferraris l’autista, su suggerimento di un viaggiatore saccente ma poco informato, imboccò un vicolo cieco. Il poverino (in verità fu molto abile) dovette sobbarcarsi ad una difficilissima manovra in un vicolo angusto con usci semiaperti, tra le bancarelle di venditori urlanti e panni stesi ad asciugare che si impigliavano allo specchietto dell’auto: scene tragicomiche.
In un primo momento le vetture erano semivuote, o almeno si trovava sempre un posto a sedere, successivamente con l’incremento del servizio, divennero super affollate: si viaggiava in piedi persino sui predellini. Ricordo il giorno del rapimento di Aldo Moro: appena si diffuse la notizia, temendo disordini o manifestazioni, vennero chiuse le università e tutti gli uffici pubblici. A complicare la situazione un brillante dirigente dei trasporti ordinò il ritiro di tutti i mezzi pubblici. E fu il caos: il Rettfilo, pardon Corso Umberto, fu invaso da una fiumana di gente che, come in un esodo biblico, si riversava verso piazza Garibaldi per tornare a casa. Riuscii a stento a salire sull’ultima corsa del Pagani-Napoli affollato fino all’inverosimile con la gente aggrappata ai predellini mentre il conducente imprecava e chiedeva invano ai viaggiatori di attendere la prossima corsa. Poi si convinse e per tutto il percorso la vettura proseguì ansimante e cigolante per il sovraccarico.
In seguito però i conducenti non hanno avuto un comportamento tanto comprensivo e accomodante, anzi con gli anni, forse perché ingiustamente aggrediti dai viaggiatori che tendevano ad incolparli delle carenze del servizio, forse a causa dell’aggravarsi della situazione occupazionale dell’azienda, si sono inaspriti, diventando a volte scortesi. Ci fu un periodo in cui avevano preso la pessima abitudine di partire da Napoli in anticipo, sia pure di qualche minuto, lasciando appiedati i viaggiatori abituali che a causa della lentezza dei collegamenti
o del traffico si riducevano all’ultimo minuto. Una sera ho litigato con l’autista di turno: la vettura da piazza Garibaldi si mette in moto con tre o quattro minuti di anticipo. Avverto l’autista che mancano ancora alcuni minuti alla partenza e quello: “E a vuie che ve ne ‘mporta? Vuie state già assettate”: Ed io:”Mi importa invece perché chi arriva dopo dovrà aspettare un’ora, potrebbe trattarsi di qualche ragazza che dovrà restare per un’ora al freddo, di sera e in un ambiente non troppo raccomandabile, vorrei vedere se capitasse a sua moglie o a sua figlia”!
E lui: “Mugliereme sta a casa a fà ‘a signora, nun se ne va cammenanno sul’essa ‘a sera”. Era evidente che la non-signora ero io che viaggiavo sola di sera!
Nonostante qualche imprevisto, i ritardi, i blocchi sull’autostrada, erano viaggi piacevoli, tanto che a me, anche perché legata al mio lavoro e al mio ateneo, d’estate durante le ferie
quando vedevo transitare il Pagani-Napoli mi veniva la nostalgia di Napoli.
La storia però non è a lieto fine: lo scorso anno, già in pensione, ero stata invitata ad un convegno alla Federico II, presieduto dal linguista Tullio De Mauro che aveva espresso il desiderio di salutare i vecchi colleghi dell’Orientale prima dell’inizio dei lavori. Salgo sull’autobus e, come spesso avviene, la macchinetta obliteratrice non funziona per cui segno a penna sul mio biglietto giornaliero la data, così come è indicato sul retro. Giunti a Napoli sale un signore privo di qualsiasi distintivo, mi chiede di esibire il biglietto e mi dichiara che non sono in regola, perché sul titolo di viaggio non ho segnato l’ora. Gli faccio notare che, essendo un giornaliero, l’ora non va indicata e allora egli mi dice che avrei dovuto avvertire il conducente del mancato funzionamento della macchinetta. In realtà sul retro del biglietto è prescritto che solo sul treno è necessario avvertire il personale, ma sugli autobus si può segnare la data autonomamente.
Ne è scaturita un’ accesa discussione continuata dinanzi alla stazione della Vesuviana tra due ali di folla incuriosita che mi hanno scambiata per un ‘portoghese’ che voleva risparmiarsi
il biglietto. L’incontro con Tullio De Mauro è saltato perché sono arrivata con notevole ritardo.
La multa però non l’ho pagata, perché in fase di giudizio mi hanno dato ragione. Tuttavia per me è stata la fine triste di un idillio durato mezzo secolo
Un Commento a L’amara fine di una storia vera