“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”.
Il famoso incipit del romanzo di Tolstoj, Anna Karenina, mi aiuta a introdurre la storia di una particolare famiglia infelice, la famiglia di un giocatore d’azzardo patologico.
La protagonista di questo racconto è Cinzia (nome di fantasia), una donna angrese di 47 anni, ex moglie di un dipendente dall’azzardo. Una vita, la loro, fatta di stenti, dolore e solitudine.
Come è cominciata la vostra storia?
Ci siamo conosciuti quando avevo 18 anni. Sembrava una persona a posto, ma la mia famiglia non voleva che ci fidanzassimo. Abbiamo deciso lo stesso di sposarci e, spesso, gli chiedevo se riusciva a mettere soldi da parte, visto che aveva uno stipendio. Mi rispondeva sempre di si. Quando cominciarono i preparativi per il matrimonio mi rivelò che non aveva soldi a disposizione, a causa di un affare andato male e che la mamma non avrebbe dovuto saperlo, perché era anziana; così, d’accordo con il fratello, per arredare la nostra futura abitazione, firmammo una serie di cambiali. Visto che avevo, e ho, un carattere molto forte, ho sempre pensato che potevamo farcela. Molto spesso, però, mi vergognavo del fatto che non portasse lo stipendio a casa.
Quando ero incinta del primo figlio e non avevo i soldi per mangiare, andavo da mia madre assicurandomi, così, almeno un pasto. Non le ho mai detto perché restassi lì a mangiare. Il problema si presentava quando c’erano le cambiali da pagare. Il mio ex marito si faceva prestare soldi da chiunque per pagare l’imminente, ma aveva sempre un altro debito da coprire.
In che modo convinceva gli altri a farsi dare dei soldi?
Trovava molte scuse.: “Mi servono i soldi perché devo pagare la rata della macchina”, “ mi servono i soldi perché devo aggiustare questa cosa” “mi servono i soldi perché mia moglie è incinta”, e così via. Quando si trovava alle strette, poi, andava dagli strozzini e copriva. Quando doveva pagare gli strozzini si rivolgeva alla sua famiglia e ai parenti, e così via.
Poi, cosa è successo?
Ottenne un posto di lavoro in Lombardia e ci trasferimmo. Anni duri. Lontana dagli affetti e continuamente privata del necessario per vivere, ho cercato di andare avanti al meglio.
Mio marito ogni fine settimana, anche durante le feste comandate, prendeva il treno e tornava ad Angri per giocare, lasciando sola me e i miei figli, ancora piccoli. Come un malato. I debiti si accumulavano e, più di una volta, come ho detto, si è rivolto agli strozzini. La sua vita era un continuo cercare di ripagare i debiti giocando. Anche l’intimità era un disastro. “Mi fa male la testa”, mi diceva quando cercavo un contatto. Il gioco era diventato la sua amante. In fondo, giocare in modo patologico è come un tradimento, a tutti gli effetti.
Dopo quasi 10 anni di permanenza in Lombardia, esausta, decisi di tornare ad abitare ad Angri presso la mia famiglia, ma mio marito continuava a chiedere soldi; io non riuscivo ad oppormi e, tutt’ora, me lo rimprovero. Ad ogni sua mancanza ho provveduto io e con questo comportamento ho contribuito a non farlo crescere. Mi sentivo sola. Quando mia madre stava per morire, in un momento di forte sconforto, affacciata al balcone, ho pensato di buttarmi giù. Per fortuna, poi, ho scelto di reagire, soprattutto per i miei figli, e di rompere il mio matrimonio. Ero, soprattutto, spaventata dall’ idea che i miei ragazzi potessero diventare dipendenti da gioco come il padre.
Quali erano i sentimenti prevalenti in quel periodo?
Mi sentivo continuamente rifiutata come donna e come moglie: “Tu non sei stata buona a cambiarmi” mi diceva; “Perché ti ci ho portato io davanti alle macchinette?”, rispondevo. Vivevamo in uno scantinato e, guardando la villetta di fronte, pensavo: “potevamo averla anche noi”. I figli crescevano, andavano a scuola, io non potevo seguirli e lui non c’era.
Quando ti sei accorta che non aveva soldi perché giocava? In realtà, che fosse un amante delle carte lo sapevano tutti, ma nessuno aveva mai pensato ad una vera dipendenza. D’altra parte, lui non ha mai ammesso di essere un giocatore , anzi, diceva sempre di essersi tolto il “vizio”.
Una volta mi hanno raccontato un aneddoto. Poiché passava molto tempo in un certo bar, mio suocero, stanco del fatto che non tornasse a casa neanche per pranzo, prese il piatto, il pane e un bicchiere di vino e glieli portò al bar. Inoltre, il mio ex marito ha due fratelli, entrambi giocatori; non sono mai riuscita a capirne il motivo, visto che i miei suoceri erano delle bravissime persone.
Molti, malignamente, affermano: “certe “femmine” si lamentano tanto che i mariti giocano e poi, quando portano i soldi a casa, sono contente”.
Io non sono mai stata contenta quando ha portato dei soldi a casa, perché sapevo da dove provenivano. Il giorno del battesimo del primo figlio, voleva darmi 500 mila lire. Io non li ho voluti. Era stato tutta la notte a giocare perché doveva cercare di vincere e chissà quanti ne aveva persi! Nei giorni precedenti, inoltre, aveva fatto il pazzo sapendo di non poter pagare il rinfresco; come poteva poi pretendere che accettassi quei soldi, frutto del gioco!?
Adesso siete legalmente separati?
Si, ma sto pagando l’avvocato per entrambi.
Perché sei rimasta con lui tutto questo tempo?
Credo che, se ho sopportato così tanto, è perché lo amavo e ho creduto fino alla fine che potesse cambiare. Finché gli ho voluto bene veramente, finché l’ho guardato con gli “occhi dell’amore”, l’ho sempre perdonato. Ad un certo punto, una volta tornata ad Angri, mi sono vista sola, sposata ad una persona che non era mio amico, non era mio marito e non era mio amante; in più eravamo lontani e mi chiedevo continuamente “che senso ha?”. E la distanza è diventata anche affettiva: lo odiavo, non sopportavo le sue parole, il suo profumo, la sua vicinanza. Non è mai cresciuto, non si è mai attaccato veramente a qualcuno.
Com’era la vita familiare?
C’era un clima ostile. Le liti erano frequentissime perché non ci potevamo permettere niente. Mancava l’essenziale. Molto spesso era anche violento fisicamente. Non c’era affetto. L’ equilibrio mentale ci era negato, non c’era l’armonia e il calore di una famiglia normale e i miei figli hanno assorbito tutto. Vivere al nord, poi, ci ha ulteriormente isolati. Nessuno poteva aiutarci. Ho fatto mille lavori per mantenerci e mantenere anche lui. Quando tornava a casa, ero terrorizzata che potesse scoppiare una lite e, quindi, non dicevo mai niente, subivo. Non mi sentivo più me stessa, ero cambiata. Con gli tutti gli altri, fingevo di stare bene.
Se avessi saputo che la sua era una vera e propria dipendenza, sarebbe cambiato qualcosa?
Non so. Probabilmente, conoscendolo, non si sarebbe lasciato mai aiutare. Ricordo che, quando eravamo al nord, l’unica strada che ho tentato è stata quella di andare presso un consultorio familiare. Non c’era così tanta informazione, quindi non sapevo niente al riguardo. Poi, ero completamente sola. Con il senno di poi mi rimprovero di non aver gestito bene la situazione e di essermi rassegnata al fatto che fosse una mente malata, con una doppia personalità. L’unico aiuto che si può offrire a queste persone è quello di uno specialista. Chi li aiuta dandogli soldi li danneggia. Dicono che adesso ci sono dei centri per la riabilitazione e la cura e che ci sono psicologi specializzati in materia.
È vero, ma raccontami del tuo ex marito.
Non si è mai curato né di se stesso né dei figli. Per buona parte del tempo si isolava oppure aveva exploit di aggressività quando perdeva e slanci di amore quando le cose gli andavano bene. Piccoli gesti di generosità, come per compensare quello che ci faceva mancare. In generale, per rifarsi giocava sempre di più. Ad un certo punto, ero diventata così esperta, che mi bastava guardargli il viso per rendermi conto se avesse giocato o meno, anche se, in effetti, il cambiamento riguardava tutta la sua personalità.
Durante i primi 6 mesi della mia terza gravidanza sembrava diverso: era diventato casalingo, usciva solo per andare a lavorare. Forse, si era reso conto che aveva bruciato una vita intera. Sembravamo una famiglia normale in cui si parlava e si discuteva sulle cose. È durato troppo poco. Quando gli serviva qualcosa, diventava un agnello. Ad esempio, quando mi doveva arrivare lo stipendio diventava un altro, magari mi metteva anche un braccio intorno alla spalla, andavamo a fare la spesa. Era solo momentaneo. Poi ricominciava tutto.
Io mi sentivo sempre in dovere di provvedere anche a lui. Quando, vivendo solo in Lombardia, veniva a trovarci qui ad Angri, prima di partire mi chiedeva sempre 20 mila lire dicendomi: “Te ne riporto 50” . Non ho mai visto un soldo. Anche adesso, quando parla con i figli, i discorsi sono sempre gli stessi: “Ho giocato la schedina, per un punto non ho preso il terno, il lotto, la bolletta”. L’ho rivisto poco tempo fa: è solo, sofferente, trascurato.
Qual era il suo gioco preferito?
Lui è nato come amante delle carte. Poi ha conosciuto le macchinette mangiasoldi ed è stata la sua rovina. Ma non si è mai negato niente: schedine, lotto, gratta e vinci. É un meccanismo che ti prende. Ho letto che nel giocare provano un piacere fortissimo, più intenso di quello di una donna.
Raccontami di te.
Per me desideravo una famiglia felice, perché l’ho sempre considerata una cosa importante; secondo me, si affrontano meglio anche le disgrazie se hai qualcuno accanto che ti dà forza. Di conseguenza, io una separazione non l’ho mai voluta, ma vi sono stata costretta per non affondare insieme a lui. Ho sofferto anche di crisi depressive ; la bambina che ero, appena sposata, è dovuta crescere velocemente. Indossavo una maschera ogni mattina, perché mi vergognavo di stare male, mi vergognavo di dire che non avevo soldi; poi ho reagito, anche ammettendo di aver commesso degli errori. Sono stata sempre una donna autonoma e proprio questa, forse, è stata la mia salvezza. Quello che mi fa più male, ora, è non avere ricordi belli con lui; ricordo solo liti, debiti da pagare, umiliazioni, botte. Adesso, per fortuna, mi sento più serena.
Hai mai provato a farlo smettere?
E che potevo fare? Ho provato di tutto per cercare di farlo sentire accolto e di fargli capire che aveva un’alternativa, ma non c’è stato verso. Ne abbiamo fatti di discorsi! Per una persona non è facile stare vicino a uno così, ci vuole per forza uno specialista. E noi, non ce l’ avevamo ai nostri tempi.
Raccontami dei tuoi figli.
Questa vicenda li ha segnati profondamente e per questo motivo ho sempre sperato che potessero, prima o poi, costruire un rapporto con il padre. Il mio primo figlio, che ha solo 28 anni, sembra un uomo di 40. Sono stata una madre e un padre per tutti e tre; ho insegnato loro persino a farsi la barba! Il padre si è perso tutti i loro momenti importanti e vorrei potesse recuperare, adesso. I miei figli sanno che non potranno chiedergli niente; nelle loro parole non c’è speranza eppure nei loro occhi leggo tutt’altro.
Hai parlato loro della “tua” storia?
I primi due la conoscono perché l’hanno vissuta. Il terzo l’ha conosciuta attraverso i nostri racconti; ha sentito e sente molto la mancanza di un padre. Vorrebbe riavvicinarsi a lui, ma ho paura che possa tradirlo, perché è già successo. Mi piacerebbe davvero che il mio ex marito passasse del tempo con loro, che costruissero insieme dei ricordi, ma non sono molto fiduciosa .
Ti senti di dire qualcosa alle persone e alle famiglie che hanno lo stesso problema?
Stare vicino a persone come il mio ex marito è difficile. Perdono ogni legame, ogni valore. Nessuno può fare qualcosa, se non nasce in loro la voglia di cambiare. A lungo ho pensato come mai mio marito avesse questo problema, quale trauma avesse subito. Non ho mai trovato una risposta. Oltre ad amare io non ho potuto fare altro. Circondata da tutta quella distruzione,
ho cercato solo di salvare il salvabile.
Siamo insieme da quasi due ore e, poiché Cinzia deve tornare a casa dai suoi figli, ci salutiamo. Devo ammettere che, nonostante abbia già parlato con tante famiglie nella stessa situazione, sono molto scossa da quanto ho ascoltato.
Cinzia è riuscita a trovare una via d’uscita per sé e i suoi ragazzi. Ha dovuto, però, chiudere il suo rapporto con il marito. Non aveva informazioni, non sapeva a chi rivolgersi,
era completamente sola in questa battaglia; ha resistito finché ha potuto, poi, ha fatto una scelta che definirei di sopravvivenza.
Io, però, penso anche al suo ex marito, a come deve aver vissuto tutto questo, intrappolato com’era in un tunnel di cui non si vede la via d’uscita. Non l’ha voluta vedere o forse nessuno gliel’ha mostrata, resta il fatto che ha dovuto vivere ogni giorno in una prigione che lui stesso ha costruito e, giorno dopo giorno, fortificato. Tutti i suoi comportamenti non sono stati dettati dalla cattiveria, dall’egoismo o dall’ ignoranza ma dall’ impossibilità di ascoltare, vedere e vivere nient’altro che il “suo” gioco. Una relazione di dipendenza non permette di interessarsi di alcunché se non dell’oggetto da cui si dipende.
Non bisogna, inoltre, dimenticare che, in queste situazioni, tutta la famiglia è coinvolta nel “problema”, non solo chi gioca, e tutti devono partecipare al recupero e al cambiamento, perché vittime e insieme complici di questa distruzione. Cinzia lo ha capito troppo tardi e finché gli ha dato del denaro ha solo peggiorato la situazione. Quello che si può fare, anche attraverso testimonianze come questa, è rendere, innanzitutto, consapevoli, attraverso l’informazione, i giocatori e le loro famiglie della situazione di impasse e potenzialmente tragica in cui si trovano, affinché dopo averne preso coscienza non facciano come la nostra Cinzia, ma cerchino un aiuto serio e specialistico.
Trasformare le famiglie infelici in famiglie felici, sicuramente, non è un obiettivo realistico; lavorare insieme al fine di attivare un cambiamento che permetta loro una vita libera e serena, lo è.
Raffaella D’Antuono
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